Un'accusa che spesso è stata mossa
all'etologia moderna è quella di riduzionismo, accusa che rivela una buona dose di umorismo involontario nella misura
in cui a portarla sono coloro che vorrebbero appunto «ridurre» l'uomo a un
fascio di riflessi condizionati, o a una variabile economica dei processi di
produzione.
Viene cioè rimproverato alla scienza del
comportamento di sopravvalutare nell'uomo i fattori biologici, di negare la
«cultura» a profitto della «natura», e così via. In realtà è proprio grazie al
pregiudizio e all'incomprensione di questi fattori che la psicologia ha spesso
confinato con il puro «gioco» intellettuale senza riscontri reali; che in campo
politico si è affacciato il pensiero utopistico; che l'uomo si è in passato
visto imporre modelli etici «contronatura» che favorivano l'instaurarsi di
stati patologici a livello individuale e sociale.
L'etologia, al contrario, parte da un punto di
vista scientificamente corretto, che si può riassumere parafrasando una
massima di Lao-Tze[1]:
«Non tutto l'uomo è nell'animale, ma tutto l'animale è nell'uomo». Il che
significa concretamente che l'uomo, costituendo una specie ben precisa, è
assolutamente normale che abbia caratteristiche particolari a lui proprie, che
è impossibile riscontrare presso altri esseri viventi, tra cui quelle che
vengono considerate le funzioni «nobili» del cervello umano. Così, non ha
senso affermare che l'etologia riduce l'uomo all'«animale», in quanto tale
affermazione denuncia già un concetto di «animale» del tutto astratto e carico
di connotazioni negative, le cui origini vanno ricercate nel pensiero
metafisico.
A partire da questa impostazione, la ricerca
etologica sull'uomo prende due strade: da un lato quella ad esempio di Desmond
Morris di cui si ricordano La
scimmia nuda(1967), Lo zoo umano (1970) e L'uomo e i suoi gesti (1978),
che analizza il comportamento umano mettendo in luce quanta parte di esso sia
comune ad altri animali superiori e quali siano le sue origini filogenetiche;
dall'altro quella battuta dallo stesso Lorenz, che mira a definire
etologicamente non ciò che abbiamo in comune, ma ciò che abbiamo di diverso dagli altri
animali, ovvero le caratteristiche peculiari della nostra specie. I risultati
di questi due assi di ricerca sono entrambi estremamente interessanti, e si
completano a vicenda.
L'etologia non pretende di spiegare la totalità dell'uomo. Ma essa
si rivela in grado di spiegare, come forse non era mai stato fatto prima, la
natura e l'origine degli impulsi fondamentali di cui egli è teatro, come dei
comportamenti che da essi prendono origine.
La «zoologia umana» verifica sul piano dei
singoli comportamenti, atti, attitudini, abitudini, gesti, il principio
generico della piena applicabilità all'uomo delle categorie e dei metodi dell'etologia generale, e
mostra l'estrema fecondità di questo studio. Prende valore pieno anche per la
nostra specie l'insieme delle considerazioni generali in materia di etologia
animale.
Essendo ormai ammesso che gli schemi di
comportamento derivano dagli adattamenti filogenetici della specie, della razza
e del gruppo, l'etologia confuta il concetto secondo cui l'uomo «apprende»
dall'ambiente tutto ciò che sa e risulta da questo determinato. A partire da
ciò si può ripercorrere la «storia» di questi schemi e spiegarne le
disfunzioni negli individui e nelle società.
In realtà la specie umana partecipa pienamente
degli istinti fondamentali, che tendono a manifestarsi in qualunque ambiente, e
la cui frustrazione costa cara in termini di degenerescenza.
È proprio per questa applicabilità all'uomo
che l'etologia incontra tante resistenze ideologiche. Sarebbero certamente in
pochi a scandalizzarsi del fatto che i lupi e le oche sono innatamente
aggressivi e non sono tali per aver ricevuto un'educazione sbagliata, se
questa osservazione non fosse estensibile a tutti gli esseri viventi. Così,
invece, sociologi e antropologi si sono immediatamente affannati a negare che
l'aggressività sia uno degli istinti naturalmente presenti, insieme agli altri,
nell'uomo, cercando ad esempio di dimostrare, come hanno fatto Margaret Mead o Herman Helmuth, che certi popoli sono pacifici
«per natura». Gli esempi citati sono quelli di alcune tribù e popolazioni
primitive che non sembrano disposti a manifestare il «pacifismo» loro attribuito.
Eibl- Eibesfeldt[2]
ha potuto facilmente provare che presso questi popoli l'aggressività è
assolutamente presente, eventualmente in forma ritualizzata: “Gli Esquimesi”, precisa, “si abbandonano a duelli canori (che non sono
in nessun modo delle competizioni artistiche, ma servono a regolare liti molto
serie), e picchiano regolarmente le loro donne; gli indiani Zùni hanno dei riti
di iniziazione estremamente crudeli; gli Arapesh della Nuova Guinea scaricano
la loro collera su degli oggetti[3]”. È importante notare che il discorso a proposito dell'impulso aggressivo, è riproducibile
e va ripetuto per la sessualità, per l'istinto sociale e per caratteristiche
della società umana quali l'ordinamento gerarchico, per la distinzione dei
ruoli maschili e femminili, per la paura e l'istinto di fuga, per la
territorialità e le origini etologiche della proprietà personale e di gruppo,
il rapporto genitori-comunità-prole, l'«etnocentrismo» degli appartenenti a una
comunità, e così via. L'etologia contemporanea, come si è detto, non trascura
comunque ciò che si rivela «monopolio» del genere umano.
La caratteristica forse più specifica
dell'uomo resta comunque la neotenia, ovvero il persistere lungo tutto l'arco dell'esistenza individuale
di caratteristiche (curiosità, capacità di apprendimento, eccetera) che negli
altri animali sono presenti solo nel periodo della giovinezza; il che fa si
che l'uomo rimanga per quasi tutta la sua vita «aperto al mondo».
L'etologia ci rivela un uomo che è per natura un essere culturale,
un essere i cui istinti sono sì interamente programmati, ma sotto forma di pulsioni non di per sé
orientate verso un oggetto preciso, come accade invece per le altre specie,
come spiega molto bene Eibl- Eibesfeldt
(I fondamenti dell’etologia).
Altre prestazioni contribuiscono insieme a
quelle già citate a creare lo specificamente
umano, come la
capacità di controllare movimenti volontari con grande precisione e finezza,
la particolare importanza presso l'uomo del gioco e dei comportamenti ludici, ma l'altro carattere centrale della
nostra specie è la tradizione
cumulativa. Contrariamente a quanto si è pensato per anni, la
tradizione esiste anche presso gli animali che presentano strutture sociali
molto evolute. “Una taccola esperta è in
grado di comunicare ad un'altra giovane, inesperta, il pericolo rappresentato
da un dato animale o da una data situazione. Tra certi tipi di scimmie esistono
persino dei metodi di comportamento che possono essere trasmessi dalla
tradizione, come ad esempio il metodo consistente nel lavare nell'acqua di
mare le patate dolci che siano sporche, tanto per pulirle che per dare loro un
sapone salato[4]”.
Ma tutto questo tipo di « conoscenze tradizionali» non possono essere trasmesse
che attraverso una lezione impartita dai fatti. Con l'affermarsi del binomio
pensiero concettuale-linguaggio simbolico, la «tradizione» viene invece
liberata dalla necessità della presenza dell'oggetto e dell'esempio diretto e
diventa così “cumulativa”, ovvero si accumula di generazione in generazione.
Ne deriva una sorta di ereditarietà socioculturale. In origine
soltanto il codice genetico era in grado di fissare e ritrasmettere delle
informazioni lungo le generazioni. Con la tradizione cumulativa appare quasi un
nuovo apparato dotato di simili proprietà.
Il meccanismo di trasmissione genetica è
comune a tutti gli esseri viventi; ma l'uomo ha in più questo particolare
meccanismo secondario capace anch'esso di assicurare la ripetizione
dell'eredità nel suo proprio campo. Certamente il cervello dell'uomo, e di
conseguenza il pensiero concettuale sono del tutto iscritti nel codice
genetico. Ma, una volta che il cervello è là, si presenta un'altra forma di
eredità, che sta alla prima come il contenuto al recipiente che lo contiene.
Se un uomo inventa qualcosa, la scrittura o l'aratro o la polvere da sparo, da
questo momento non soltanto i suoi figli, ma l'insieme del gruppo etnico-culturale
al quale appartiene nelle sue generazioni future, possiederanno questi
strumenti.
Ciò rinforza, come è ovvio, i vincoli
comunitari poiché chi comprende un'idea, dal momento in cui l'ha assimilata,
la possiede tanto bene quanto colui che gliel'ha spiegata, ed i due sono quindi
avvicinati dal fatto di avere questa idea in
comune. Ma nello stesso tempo vengono
differenziati da un altro gruppo che a sua volta possiede altre
idee in comune. Appaiono così le differenti culture.