I meccanismi alla base delle dinamiche etologiche sono le stesse che regolano
l’evoluzione delle specie viventi. Il contributo più consistente allo sviluppo
della moderna teoria evolutiva è senza dubbio alcuno quella del naturalista
inglese Charles Darwin. Egli, avviato alla carriera di medico ma disgustato
dalle brutali pratiche del tempo, all'età di soli ventidue anni rinunciò a
proseguire la sua attività (egli stesso scriverà di essere fuggito da una sala
medica in cui si stava operando un bambino di pochi mesi senza anestesia) per
avviarsi con poca convinzione alla carriera ecclesiastica.
Sebbene poco interessato a questo campo di studi, Darwin era un appassionato cacciatore,
amava collezionare molluschi, conchiglie e coleotteri e si interessava
attivamente di botanica: per cui, quando il capitano del brigantino Beagle si
disse disposto a offrire un passaggio a un giovane naturalista disposto a
seguire senza stipendio la sua spedizione verso la costa sudamericana, Darwin
accettò con entusiasmo, ignaro che il suo viaggio avrebbe cambiato per sempre la
visione della nostra vita e della nostra collocazione all'interno del regno dei
viventi. Fino al termine del XVIII secolo, la teoria riconosciuta dalla comunità
scientifica come la più accreditata e verosimile era quella della Scala Naturae
aristotelica, secondo la quale gli organismi erano classificabili in una
piramide ideale: gli animali più semplici stavano alla base della piramide e
l'uomo alla sua sommità, mentre tutti gli altri esseri viventi occupavano le
posizioni intermedie. Vi era poi un gruppo di biologi più avanguardista, che
rifiutava la concezione aristotelica in favore di quella ancor più
antropocentrica dell'Antico Testamento, secondo la quale tutti gli esseri
viventi erano stati creati per un atto divino, essenzialmente per l'utilità o il
piacere degli uomini. A questo si aggiungeva poi una constatazione che appariva
incontrovertibile e che era ben radicata nel senso comune, quella cioè che le
specie animali fossero eterne e immutabili, create di proposito e con fini
specifici. Come si sarebbe potuta spiegare altrimenti la straordinaria varietà
degli organismi e il sorprendente adattamento di ogni essere vivente al proprio
habitat?[1] Il brigantino Beagle salpò nel
mese di dicembre 1831 per arrivare a Bahia, sulle coste brasiliane, alla fine
del febbraio 1832. L'imbarcazione riprese poi il viaggio lungo la costa
effettuando soste a intervalli più o meno regolari. Darwin ebbe così modo di
passare circa tre anni e mezzo lungo le coste del Sud America, esplorandone
anche l'interno. La sosta alle isole Galàpagos (dal nome spagnolo per
testuggine) durò poco più di un mese e, in questo periodo, egli effettuò
numerosissime osservazioni sulla fauna dell'arcipelago. L'oggetto delle sue
osservazioni furono principalmente le grandi e singolari testuggini che
popolavano questo arcipelago; su ognuna delle numerose isole, queste differivano
per alcuni particolari, ad esempio nella conformazione del carapace, mentre per
il resto le specie erano sorprendentemente simili. Osservando la vegetazione
circostante, Darwin rilevò un carattere ancora più sorprendente: le diversità
tra le varie specie sembravano rispondere alle esigenze che le testuggini
avevano sull'isola nella quale risiedevano. Ad esempio, nelle isole ricche di
vegetazione le tartarughe avevano un carapace a forma di cupola, atto a
proteggere le parti molli dell'animale perché si potesse far strada tra gli
arbusti; le tartarughe residenti sulle isole dal clima più arido, invece,
avevano un carapace a forma di sella, che permetteva all'animale di allungarsi
in modo più efficace in cerca di cibo. Inoltre il viaggio offrì a Darwin ampie
opportunità di familiarizzarsi con le più moderne teorie geologiche, tramite i
libri che aveva portato con se; gli divenne chiaro che le condizioni della
Terra erano rimaste sostanzialmente costanti per milioni di anni. Altrettanto
affascinanti delle rocce e della stratigrafia della parte meridionale del
continente si rivelarono per lui le svariate specie esotiche che incontrò; egli
fu inoltre colpito in modo particolare dalle straordinarie somiglianze che
occasionalmente potette rilevare tra le specie viventi e le creature
fossilizzate di cui era divenuto un attento raccoglitore. Fu allora che Darwin
cominciò a misurarsi con il problema di comprendere l’origine delle specie. La
grande quantità di rilevazioni permisero a Darwin di elaborare una teoria
destinata a cambiare per sempre la concezione antropocentrica della scienza del
suo tempo. Egli pubblicò nel suo più celebre libro, Sull'origine delle specie[2],
le sue conclusioni, che per gli scienziati dell'epoca avevano dello
sconcertante.
Secondo Darwin, infatti, le variazioni tra individui, presenti in
ogni popolazione naturale, sono dovute al caso: non sono prodotte né
dall'ambiente, né da una "forza creatrice" superiore, e nemmeno da un ipotetico
impulso inconscio dell'organismo. Queste variazioni non presentano né uno scopo
preciso né una direzione, ma possono risultare più o meno utili per un certo
organismo ai fini della sua sopravvivenza e riproduzione, mentre ne sfavorisce
altri che presentano caratteristiche meno idonee all'ambiente in cui l'animale
vive. E' questo il celebre principio della selezione naturale, il quale agendo
su un grande numero di generazioni dà una direzione certa all'evoluzione degli
organismi. Proseguendo nel suo ragionamento, Darwin intuisce poi che, col
passare del tempo e delle generazioni, le differenze che intercorrono tra due
animali discendenti dallo stesso progenitore ma che grazie al processo di
selezione naturale si sono progressivamente adattati ad ambienti o condizioni di
vita diversi, possono ampliarsi fino a originare nuove specie[3].
Inoltre era convinto che l’origine della specie umana non facesse eccezione alla
regola generale, ossia che l’uomo fosse un prodotto dell’evoluzione biologica
come qualsiasi altra specie. Nel 1872 i motivi di tale convinzione vennero
esposti in dettaglio ne L’origine dell’uomo[4].
La pubblicazione di quest’opera venne a lungo rimandata a causa della ferma
convinzione da parte di Darwin che un’idea rivoluzionaria per essere accolta
favorevolmente necessiti di un’accurata preparazione e forse anche dalla
preoccupazione di possibili persecuzioni e dal disgusto per le controversie
pubbliche che egli sapeva ne sarebbero seguite, date le opinioni religiose
prevalenti nella società inglese del tempo. A quei tempi, sostenere una teoria
che poteva sembrare un incoraggiamento alla diffusione dell’ateismo possedeva un
effetto dirompente paragonabile a quello che, ai giorni nostri, avrebbe il
sostenere una teoria che incoraggiasse la pedofilia. I primi due capitoli di
quest’opera sono dedicati all’analisi delle somiglianze fisiche tra l’uomo e gli
altri animali e discutono argomenti che ormai erano scarsamente controversi e
dati spesso già ben noti. I due capitoli successivi sono interamente dedicati a
un confronto tra i processi mentali della nostra specie e quelli degli altri
animali: prendendo le mosse dall’ammissione delle grandi differenze esistenti
anche tra gli abitanti della Terra del Fuoco e “la scimmia più progredita”,
Darwin si propose di dimostrare che nonostante tutto non esisteva alcuna
differenza fondamentale tra le capacità mentali dell’uomo e quelle degli animali
più evoluti.
Egli prese in esame in primo luogo l’obiezione che tra l’uomo e gli altri
animali esiste una differenza qualitativa esprimibile con l’affermazione che
mentre il comportamento degli altri animali è completamente guidato dagli
istinti, quello dell’uomo è guidato dalla ragione; cominciò quindi con
l’argomentare che in quasi tutte le specie il comportamento di un singolo
individuo in parte è istintivo e in parte dipende dalle sue personali esperienze
passate; inoltre, gli sembrava chiaro che istinto e apprendimento non sono
inversamente correlati nelle varie specie. Secondo Darwin, era chiaro che vi
sono delle differenze quantitative nelle capacità intellettive tra le varie
specie e che in certe di esse, in particolare nelle scimmie antropoidi, il
comportamento dimostra a volte capacità intellettive quasi umane: come esempi a
questo proposito egli citava vari resoconti di scimpanzé ed orang- utan che
utilizzavano attrezzi, come delle pietre, per rompere il guscio delle noci
oppure usavano dei bastoni a mò di leve. A suo parere, la mente umana poteva
essere considerata come un ulteriore gradino, anche se indubbiamente di notevole
entità, in quello sviluppo evolutivo delle funzioni intellettive che già era
osservabile negli animali.
Un’ulteriore importante obiezione era basata sulle caratteristiche e sulla
presenza stessa del linguaggio. Alcuni dei critici di Darwin ritenevano
lapalissiano che il linguaggio umano fosse così profondamente differente da
qualsiasi forma di comunicazione animale da non poter essere il prodotto di un
processo evolutivo; la risposta di Darwin a questa obiezione consistette nel
sottolineare come svariati elementi fondamentali del linguaggio esistano già a
livello infraumano (ad esempio lo sviluppo del canto negli uccelli che dipende
sia dall’apprendimento che da una tendenza istintiva, il mimetismo vocale nei
pappagalli e in altri uccelli, i repertori di vocalizzazioni nei primati che
indicano vari stati affettivi) e che tali elementi, combinati con un forte
sviluppo delle capacità mentali, potevano essere le basi da cui si era
sviluppato il linguaggio umano. I parallelismi che sembravano esistere tra
l’evoluzione biologica e i dati allora noti a proposito dello sviluppo storico
del linguaggio contribuivano a rafforzare queste argomentazioni. Infine, Darwin
ammetteva che la caratteristica distintiva più importante della mente umana
fosse costituita dal senso morale o dalla coscienza. E’ necessario notare
l’importanza centrale che in queste argomentazioni viene attribuita
all’intelligenza, intesa come capacità di risolvere i problemi pratici. Darwin
si pose il problema dell’origine della differenza delle superiori capacità
mentali umane rispetto a quelle degli altri animali. A tal riguardo ipotizzò due
spiegazioni: la prima è legata all’ereditarietà dei caratteri acquisiti, ossia
all’idea lamarckiana (sin dai tempi del viaggio sulla Beagle sembra che Darwin
non avesse mai messo seriamente in discussione la propria convinzione che le
capacità, le abitudini e gli stili di pensiero che un determinato individuo
sviluppa nel corso della propria vita vengano in qualche modesta misura
trasmessi alla sua prole come parte dell’eredità biologica) e la seconda legata
alla selezione sessuale, all’idea cioè, che lo sviluppo del grande cervello
nella nostra specie e delle notevoli capacità intellettuali dell’uomo,
potrebbero essere simili allo sviluppo della coda del pavone o del palco di
corna del cervo, caratteri apparentemente pleonastici che sono il risultato dei
processi della selezione sessuale.
Se nel 1859 l’obiettivo di Darwin era quello di modificare la concezione
della natura generalmente accettata, trasformandola da quella di un mondo
armonioso contenente forme di vita collegate ma distinte, nel 1871 egli si
propose invece di distruggere una diversa ed ulteriore barriera, quella tra la
mente umana e quella degli altri animali.
Per Darwin era sufficiente poter concludere che “per quanto grandi possano
essere, le differenze nelle capacità mentali dell’uomo e degli animali più
elevati sono indubbiamente di tipo quantitativo e non qualitativo”; il suo tono
generale nel fare questa affermazione non era tuttavia quello di chi enuncia le
parole finali su un argomento sviscerato a fondo, ma quello di chi indica la via
che un nuovo campo di ricerca potrà sviluppare.